Nel mondo antico la vita di una persona non vedente era molto più dura di oggi, perché ai gravi inconvenienti dovuti alla malattia si aggiungevano quelli derivanti dall’impossibilità di lavorare e gestirsi; e siccome non esisteva nessuna forma di previdenza o di pensione, i ciechi erano condannati a chiedere l’elemosina per vivere. Oltretutto anche in questa pratica erano svantaggiati rispetto agli altri mendicanti, che – potendoci vedere – si accaparravano per primi i passanti. Gli ebrei consideravano inoltre la cecità, come ogni altra malattia, una punizione da parte di Dio. Ricordiamo tutti la domanda che i discepoli rivolgono a Gesù davanti al cieco nato: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Gv 9,2).
Bartimeo è quindi un uomo emarginato dalla società civile e religiosa; è un “povero” nel senso pieno della parola. Gli occhi degli altri lo etichettavano come un poveraccio: perché menomato nel fisico, nullatenente e persino conisderato peccatore. Ma ad un certo punto si apre per lui uno spiraglio di luce: passa Gesù, di cui aveva sicuramente sentito parlare come di un uomo capace di fare i miracoli, e comincia a gridare per farsi sentire.
E qui si verifica il primo miracolo di guarigione della vista: non ancora la vista di Bartimeo, ma la vista della folla. Il rimprovero con cui la gente aveva cercato di soffocare il grido del cieco dimostra infatti che i primi ciechi erano loro, quelli che stavano attorno a Gesù e non volevano vedere il bisogno di Bartimeo, il suo desiderio di avvicinare Gesù. Erano ciechi, perché incapaci di prestare orecchio al grido del povero, chiusi nel loro tentativo di proteggere anche Gesù dal fastidio del bisognoso, da quell’emarginato importuno. Non c’è violenza peggiore di quella procurata da chi pensa di “proteggere” il Signore dal grido del povero, da chi ritiene che il povero non debba importunare Dio con le sue domande e le sue proteste. Ma Gesù si dimostra veramente “il Signore”, perché fa sue le parole con le quali Dio aveva detto a Mosè: “ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido” (Es 3,7). E Gesù, ignorando il tentativo di impedirgli l’incontro con Bartimeo, dà alla gente il comando di farlo avvicinare: “chiamatelo!”. Gesù incarica quegli stessi che avevano cercato di interrompere questo possibile filo tra lui e il cieco e Gesù di riallacciarlo, di favorire l’incontro anziché impedirlo. Controvoglia, devono obbedire, chiamano il cieco e addirittura lo incoraggiano: “coraggio! Alzati, ti chiama!”. Adesso ci vedono: hanno capito, anche se forse non sono d’accordo, che quell’uomo interessa a Gesù, che non è un rifiuto della società ma un figlio di Dio; hanno dovuto aprire gli occhi e scorgere un essere umano in uno etichettato come un poveraccio.
A questo punto si verifica il secondo miracolo: dopo un breve dialogo, nel quale Gesù vuole che il cieco esprima il suo desiderio, lo guarisce. Ma non attribuisce la guarigione ai propri poteri, bensì alla fede di quell’uomo: “la tua fede ti ha salvato”. Dove si dimostra questa fede? Certamente nel fatto che il cieco aveva chiamato Gesù con il titolo di “figlio di Davide”, che all’epoca voleva dire “Messia”, “inviato di Dio”; non dunque un uomo come gli altri, ma uno che Dio ha mandato per la salvezza di tutti. Però credo che la fede del cieco si manifesti ancora di più in un altro aspetto: nella sua umiltà. Il suo grido è semplicemente: “abbi pietà di me!”. Non è un contratto: “Se mi ridai la vista, diventerò tuo discepolo e parlerò bene di te!”. Non è neppure una sfida: “se sei davvero il figlio di Davide, il Messia, dimostralo ridandomi la vista!”. E non è neanche una pretesa, che sarebbe stata comunque comprensibile: “Se tu sei l’inviato di Dio, ristabilisci la giustizia e dammi le stesse possibilità degli altri!”. No, niente di tutto questo. Non accampa pretese, non detta condizioni, non lancia sfide, non si lamenta nemmeno della sua situazione. Semplicemente domanda pietà. La fede inizia da una profonda umiltà e svanisce quando uno vuole contrattare con Dio o sfidarlo.
Cari amici, che state per diventare diaconi, voi siete un grande dono per la nostra Chiesa. Voi potrete dare una mano al Signore a ripetere anche oggi il doppio miracolo della vista. Prima di tutto il miracolo di darci la vista del cuore, di aprirci umilmente a lui come fa Bartimeo, senza dettare condizioni o avanzare pretese, ma semplicemente consegnandoci a lui; la fede è quella luce interiore che permette di mantenere sempre accesa la lampada della speranza, anche nelle fatiche e nelle sofferenze. E voi proclamerete quella Parola che può destare e alimentare la vista del cuore, quella parola di vita eterna che – tra le tante parole di vita terrena, spesso superficiali – può vincere le nostre cecità interiori ed aprire la vista sulla realtà e sugli altri come doni di Dio. E potrete poi favorire, come diaconi, il miracolo di aprirci gli occhi davanti alle povertà del mondo, specialmente quelle vicine a noi: possono essere povertà materiali, malattie, problemi affettivi, povertà morali e spirituali… I diaconi sono i segni di Cristo servo e povero, sono come delle “sveglie” che aiutano le comunità cristiane a tenere aperti gli occhi sulle persone svantaggiate, perché non possono esibire ricchezza, bellezza, salute, successo. Il vostro ministero aiuterà tutti gli altri cristiani a non chiudere gli occhi davanti a chi ha bisogno, tentando di soffocare il grido che molti, anche senza saperlo, rivolgono a Dio nella fatica e nel dolore. E si apriranno allora anche gli occhi dei poveri, che potranno reintegrarsi degnamente nella vita. Il vostro ministero, carissimi amici, sarà tanto più vero quanto più sarà scomodo, perché è molto più comodo chiudere gli occhi di fronte alle povertà, nella tranquilla convinzione che in fondo la vita è così: ci sono i poveracci e ci sono le persone normali. Voi ci ricorderete che agli occhi di Dio ci sono dei figli e ci aiuterete a strappare via le etichette, perché possiamo recuperare la vista, lo sguardo del Signore, che non vede l’apparenza, non si ferma alle etichette, ma vede il cuore, vede in ciascun uomo un figlio.